FENICE

ARALDICA

Il più celebre fra gli animali favolosi dell’antichità, definito dagli arabi creatura di cui si conosce il nome e si ignora il corpo, che corrisponderebbe al nostro detto:

Che ci sia ciascun lo dice,

Ove sia nessun lo sa.

Il primo a darne una descrizione particolare fu Erodoto:

“V’è, dice egli, un uccello sacro che si chiama Fenice, io non l’ho mai visto se non dipinto. Non si vede spesso neppure in Egitto.

Gli Eliopolitani dicono ch’esso viene ogni 500 anni, da quando suo padre è morto.

Se rassomiglia alla pitture che ho veduta, egli è della forma e della grandezza di un’aquila; la sua piuma è dorata, e tinta di rosso; ne riferiscono delle cose poco verisimili.

Dicono che venendo dall’Arabia nel Tempio del Sole, esso vi porta suo padre coperto di mirra, e che lo sotterra in questo tempio; e che per portarlo, esso fa primieramente con della mirra una massa in forma d’uovo tanto grossa quanto la può portare, di che prima ne fa prova, che dopo tale esperimento scava siffatta massa e vi mette dentro suo padre che la rende dello stesso peso ch’era innanzi; che la rinchiude con altra mirra e che la porta poi in Egitto nel tempio del Sole.”

Questa storia fu, con vari abbellimenti, ripetuta o creduta per più di mille anni. Ne parlarono circostanziatamente, Antifane, Cheremone, Lucano, Marziale, Mela, Ovidio, Plinio, Seneca e Stazio; Tacito, racconta che ne fu vista una in Egitto l’anno 34 dell’era volgare.

Il Rabbino Osaja dice che, la ragione per cui la fenice vive sì lungo tempo è perché essa fu il solo animale che non mangiasse del frutto vietato dal paradiso.

San Clemente Romano, riferisce che, l’araba fenice essendo presso a morire si costruisce una pira d’incenso e mirra, vi dà fuoco e vi muore entro.

Allorché, la sua carne è corrotta, ne nasce un verme che si nutre dell’umore dell’animale morto, e riveste le penne, divenendo in tal modo una nuova fenice, che è sempre la stessa che spira sul rogo.

Su queste favole si potrebbero dare due interpretazioni.

Primieramente si potrebbe supporre che questo uccello fosse il fagiano dorato della Cina o l’uccello di paradiso, sopra il quale, per la sua rarità e per la bellezza delle sue penne, gli antichi avrebbero spacciato mille fole.

Ovvero, siccome nell’antica Grecia significa egualmente un palmizio, albero al quale si attribuivano facoltà soprannaturali, specialmente quella di rinascere dalle proprie ceneri quand’era distrutto, è probabile che si equivocasse del nome, e si inventasse la storia della fenice che altro non sarebbe che un’allusione alla fertilità dei paesi orientali.

Presso gli Egizi era geroglifico dell’anima che sopravvive al corpo e passa in altro, per la teoria della metempsicosi; presso i cristiani sarebbe un simbolo della resurrezione di Cristo.

In araldica, che l’adotta come tutte le altre creazioni dalla fantasia umana, rappresenta la costanza propria dei cuori più nobili e generosi.

Nelle imprese è per lo più accompagnata dai motti:

Post fata resurgo; Perit ut vivat; Ut in aeternum vivat; Vita mihi mors est;

Nemica fiamma amica vita adduce; ecc.

Graziosamente il Cavalier Ciro di Pers, si valse dell’ idea della fenice per un’ode da nozze, scrivendo allo sposo:

Ma ben arder felice

Tu sol fra gli altri puoi, che i cari incendi tuoi Dolce temprar ti lice,

Amorosa Fenice, In si bel rogo ardendo

Rinascerai morendo.

Nelle divise è emblema di castità vedovile, di virtù immortale, di contemplazione, di penitenza e di fama.

Nello scudo si pone di profilo, colle ali semistese sopra un rogo, che si dice “immortalità” quando è di smalto diverso dall’uccello, non si blasona se è dello stesso.

La fenice è per lo più “riguardante”un sole posto nel primo cantone, che simboleggia la gloria a cui aspira il merito; raramente è “volante”.